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Il gusto? Questione di cervello e di naso

Il gusto? Questione di cervello e di naso

In apparenza, il gusto sembra qualcosa di semplice: un morso, un sapore, un giudizio. In realtà, è un fenomeno straordinariamente complesso che nasce dalla collaborazione di più sensi e culmina in un’elaborazione profonda nel nostro cervello. Oggi, la neurogastronomia — disciplina che studia come percepiamo il gusto a livello cerebrale — ci mostra che ciò che riteniamo “buono” non dipende solo dal palato.

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Non è solo questione di lingua: entra in gioco il naso. È vero che la lingua distingue cinque gusti fondamentali: dolce, salato, amaro, acido e umami. Ma sarebbe riduttivo pensare che basti questo per apprezzare un piatto. Se così fosse, il caffè e il cioccolato avrebbero lo stesso sapore amaro. In realtà, quello che chiamiamo "gusto" è in gran parte aroma, ed è l’olfatto il protagonista silenzioso di questa esperienza.

Quando mastichiamo, le molecole aromatiche del cibo risalgono per via retronasale fino all’epitelio olfattivo, situato nella parte alta del naso. Qui, centinaia di recettori inviano segnali a specifiche aree del cervello, creando una vera e propria “immagine olfattiva” dell’alimento. Il neuroscienziato Gordon M. Shepherd, dell’Università di Yale, ha dimostrato che oltre l’80% della percezione del gusto è in realtà odore. Ed è per questo che, quando abbiamo il raffreddore, tutto ci sembra insipido: il nostro naso è fuori gioco.

La lingua, il naso, la vista, il tatto e persino l’udito contribuiscono al sapore, ma è il cervello a orchestrare tutto. L’area insulare, la corteccia orbitofrontale, l’amigdala e l’ippocampo lavorano insieme per associare sapori a emozioni, ricordi e contesti. Il sapore, dunque, non è solo una risposta sensoriale, ma un'esperienza multisensoriale, emotiva e spesso culturale.

Questo spiega perché un piatto mangiato in vacanza possa sembrarci incredibile e lo stesso piatto, cucinato identico a casa, ci deluda. Le neuroscienze ci insegnano che la percezione del gusto è influenzata dall’ambiente, dalle aspettative e dai nostri ricordi.

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Proust e la madeleine: quando il gusto diventa memoria

Marcel Proust, nel suo romanzo "Alla ricerca del tempo perduto”,  ha raccontato bene la potenza dell’aroma sulla memoria. In uno dei passi più celebri, il protagonista inzuppa una madeleine nel tè e, in un attimo, viene travolto da un ricordo nitido della sua infanzia a Combray, quando sua zia gli offriva quel dolce la domenica mattina.

Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia (la madeleine) toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me (…) Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M’aveva subito rese indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità inoffensive, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l’amore, colmandomi d’un’essenza preziosa: o meglio quest’essenza non era in me, era me stesso. (…)

Donde m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch’era legata al sapore del tè e della focaccia, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. (…) Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? (…)

Qualche paragrafo dopo Proust chiarisce da dove arrivava quella sensazione: “E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray, quando andavo a dirle buongiorno nella sua camera da letto, zia Leonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè”.

La capacità descrittiva di Proust mostra tutto il potere evocativo del cibo, il cibo come memoria: il passato che riaffiora custodito in un biscotto che crea un ponte con il presente. Quel momento illustra perfettamente un meccanismo oggi ben conosciuto: l’olfatto ha connessioni dirette con l’ippocampo e l’amigdala, le aree del cervello deputate alla memoria e alle emozioni. Non è un caso che certi profumi ci commuovano o ci trasportino indietro nel tempo. Non serve uno sforzo razionale: l’aroma agisce in modo immediato e profondo.

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Perché allenare l’olfatto è essenziale

Nonostante il suo potenziale straordinario, l’olfatto è il senso che usiamo di meno in modo consapevole. Molti di noi non sanno distinguere la menta dal basilico a occhi chiusi. Non perché il nostro naso non funzioni, ma perché non abbiamo costruito una “libreria olfattiva”. Non si può riconoscere un odore se non lo si è mai memorizzato e nominato.

Qui, oltre alla pratica quotidiana del prestare attenzione all’odore di tutto ciò che si incontra, entrano in gioco strumenti come le collezioni di aromi, pensate per allenare la memoria olfattiva e migliorare la capacità di degustazione, utilizzate infatti anche dai sommelier professionisti. Questo tipo di esercizio rafforza il collegamento tra odori e parole, tra sensazioni e concetti. Un allenamento utile non solo per chi lavora con il gusto, ma anche per chi vuole semplicemente apprezzare meglio ciò che mangia.

Il gusto non si limita al palato, ma si costruisce nel cervello, grazie alla sinergia tra i sensi e alla potenza evocativa dell’olfatto. Conoscere e allenare il proprio senso dell’olfatto significa educare il piacere, approfondire la conoscenza del cibo e riscoprire emozioni perdute. Dietro ogni morso si nasconde un potenziale viaggio nei ricordi, a cui vale la pena prestare attenzione.